Il morbo di Alzheimer è il tipo più comune di demenza, un termine generale per le condizioni che si verificano quando il cervello non funziona più correttamente.
Il morbo di Alzheimer provoca problemi di memoria, di pensiero e di comportamento. Nella fase iniziale, i sintomi di demenza possono essere minimi, tuttavia, quando la malattia provoca maggiori danni al cervello, i sintomi peggiorano. La velocità con cui la malattia progredisce è diversa per ciascuno, tuttavia, in media, le persone che soffrono del morbo di Alzheimer vivono otto anni dopo che i sintomi si sono manifestati.
La causa esatta di questa patologia non è ancora stata trovata, quindi non esiste neppure una cura definitiva, ma negli ultimi tre decenni la ricerca sulla demenza ha fornito una comprensione molto più approfondita del modo in cui il morbo di Alzheimer colpisce il cervello.
Nelle scorse ore si è svolto il convegno “La medicina di base in frontiera. Le sfide dell’invecchiamento e del declino cognitivo” organizzato alla Scuola delle Professioni del Terziario di Trento.
Da questo incontro è emerso che l’Alzheimer si previene a tavola, pregando, studiando, facendo volontariato e passando il tempo con i propri cari.
In buona sostanza, anche per le malattie neurocognitive il mondo medico sta studiando l’ipotesi, sempre più accreditata, che i fattori di rischio siano gli stessi delle malattie cardiovascolari, ovvero fumo, alcool, una dieta malsana, obesità, ipertensione, sedentarietà.
Ma anche elementi di tipo sociale e famigliare, tanto che la Psicogeriatria è considerata la medicina emergente del terzo millennio: la solitudine percepita può aumentare il rischio di Alzheimer fino a 2 volte, la mancanza di partecipazione alla vita sociale e di contatti relazionali aumenta il rischio di demenza rispettivamente del 41% e del 57%.
Ma si è parlato anche del rapporto col medico di base e dei ritardi nella diagnosi: solo il 60% dei pazienti viene diagnosticato dai medici di base e il tempo medio che passa fra i sintomi conclamati e la diagnosi è di 14 mesi.
Un ritardo dovuto in parte allo stigma che ancora la malattia porta con sé per cui le famiglie faticano ad ammettere che un loro caro sia ammalato, ma in parte dipende anche dai medici: il 57% dei medici di base, secondo uno studio europeo condotto in Grecia, Gran Bretagna, Francia e Italia, ritiene inutile una diagnosi poiché non c’è una cura.
Ed invece, conoscendo i fattori di rischio, abbiamo la possibilità di allenare il cervello a resistere alla patologia, come ha spiegato Luc Pietr De Vreese, direttore sanitario di Villa Maria a Calliano, dove ci si occupa di disabilità intellettiva di adulti e anziani.
«È possibile in chi ha studiato e iniziato fin dall’infanzia a coltivare dei fattori protettivi – ha spiegato De Vreese – avere la malattia istologica ma non manifestarne gli effetti perché il cervello è resiliente, in grado di combatterne le manifestazioni».
Quali sono i fattori protettivi? Studiare, fare attività fisica quotidiana, mantenere un’attività cognitiva e sociale, ma anche coltivare la propria spiritualità e le amicizie.
Se il mantenere il cervello in attività fin da piccoli è una strategia contro l’Alzheimer, l’Italia è a rischio: «A preoccupare è l’aumento dell’abbandono scolastico nel Paese- ha chiosato De Vreese- perché sappiamo che arrivare almeno al diploma di maturità e quindi avere la prospettiva di un lavoro cognitivamente impegnativo è un fattore positivo nel ridurre l’insorgenza di demenze».
A sottolineare altri fattori di rischio per l’insorgenza della patologia sono inoltre anche i risultati a cui è giunto un team di ricerca internazionale, guidato dalla Boston University School of Medicine, che per rispondere ha svolto un’analisi su un vasto campione di dati. I risultati sono stati pubblicati sul Journal of Alzheimer’s Disease.
In particolare, i ricercatori hanno considerato i dati su partecipanti di età compresa fra i 40 e i 59 anni, raccolti dal 1979 al 1983, ed hanno cercato le associazioni con chi poi aveva ricevuto una diagnosi di demenza. Per analizzare i dati, i ricercatori hanno utilizzato modelli matematici come algoritmi di random forest e alberi di classificazione e decisione. “Si tratta del primo passo nell’applicare algoritmi di machine learning per identificare nuove combinazioni di fattori collegati ad un aumento del rischio di demenza”, ha spiegato la co-autrice dello studio Rhoda Au, così l’intelligenza artificiale è stata impiegata in ambito medico per fare previsioni statistiche.
In base ai risultati, l’età è risultata fortemente collegata al rischio della malattia, com’era prevedibile. Ma fra gli altri fattori individuati durante la mezza età, vi è l’essere vedovi, essere sottopeso (ovvero avere un Bmi minore di 18 – mentre avere un Bmi più alto sembra proteggere dalla demenza) e dormire meno di 7 ore, una durata inferiore rispetto a quella raccomandata per gli adulti dalle linee guida internazionali.