Immagina la scena: una pila di curriculum sulla scrivania di un recruiter. L’esperienza e le qualifiche sono lì, in bianco e nero, ma la prima cosa che salta all’occhio è il nome. Potrebbe sembrare un dettaglio di poco conto, eppure questo primo incontro verbale può creare un’impressione inconscia che, secondo la scienza, ha un suo peso specifico nella valutazione di un candidato.

La musica del nome: una questione di suono
Sembra incredibile, ma il “suono” del nostro nome può predisporre un selezionatore in modo positivo o negativo. Una ricerca pubblicata sulla rivaista scientifica Journal of Experimental Social Psychology ha messo in luce un fenomeno noto come “simbolismo sonoro”. I ricercatori, guidati dal Dr. David Dishu e dalla Prof.ssa Penny Pexman, hanno scoperto che i nomi contenenti suoni dolci e continui, come le consonanti “m”, “n” e “l” (pensa a nomi come “Luna” o “Luca”), vengono associati inconsciamente a personalità più aperte, equilibrate e amichevoli.
Al contrario, nomi con suoni “duri” e interrotti, come le consonanti “t”, “d” o “k” (ad esempio “Greta” o “Kirk”), possono evocare una percezione di maggiore estroversione, ma risultare meno adatti per ruoli che richiedono doti di umiltà ed empatia. Questo non significa che chi porta questi nomi possieda realmente tali caratteristiche, ma è la prima impressione che il cervello del selezionatore registra. Si tratta di un bias cognitivo, un pregiudizio sottile ma potenzialmente influente quando le informazioni a disposizione sono poche.
Oltre il nome: il potere delle immagini e delle competenze
Questo curioso effetto, però, ha i minuti contati. Lo stesso studio ha evidenziato un dato fondamentale: l’influenza del suono del nome si riduce drasticamente, quasi fino a scomparire, quando il recruiter ha a disposizione informazioni aggiuntive. La presenza di una foto nel curriculum, e in modo ancora più decisivo la visione di un video di presentazione, neutralizza l’impatto del simbolismo sonoro.
Questo fenomeno ricorda da vicino il concetto psicologico di “enclothed cognition“, ovvero la “cognizione indossata”, secondo cui l’abito che portiamo influenza il modo in cui pensiamo e agiamo. Così come un camice da medico può farci sentire più attenti e scrupolosi, un video ben fatto o un portfolio solido “vestono” il candidato di professionalità, spostando l’attenzione dal nome alle competenze reali. Come dice il vecchio adagio, “l’abito non fa il monaco”, ma di certo aiuta a presentarsi. Allo stesso modo, il nome è solo la copertina di un libro che va letto fino in fondo.
Conclusione La prima impressione conta, ma non è tutto. Sebbene il suono di un nome possa creare un leggero pregiudizio iniziale, sono la personalità, le competenze dimostrate e la preparazione a determinare l’esito di una selezione. La consapevolezza di questi meccanismi inconsci è il primo passo, sia per i candidati che per i selezionatori, per garantire processi di assunzione più equi e obiettivi.
Per approfondire il tema dei bias cognitivi nella selezione del personale e l’impatto dei nomi, puoi consultare queste fonti autorevoli:
- The Conversation (in inglese)
- Harvard Business Review – How to Reduce Personal Bias When Hiring (in inglese)
Curiosa per natura e appassionata di tutto ciò che è nuovo, Angela Gemito naviga tra le ultime notizie, le tendenze tecnologiche e le curiosità più affascinanti per offrirtele su questo sito. Preparati a scoprire il mondo con occhi nuovi, un articolo alla volta!