L’ossessiva ricerca della felicità e il tentativo di evitare a tutti i costi il disagio emotivo sono diventati, per molti, un imperativo moderno. Ci muoviamo in una cultura che spesso dipinge la negatività come un nemico da sconfiggere, inducendo le persone a sviluppare meccanismi di difesa che, nel tempo, si rivelano più tossici del problema originale. Una vita emotivamente sana, al contrario, non è affatto l’assenza di infelicità, ma il riconoscimento che le emozioni negative sono segnali vitali e non deviazioni indesiderate.

Perché l’infelicità è un segnale vitale: il pensiero di Harvard sulla repressione emotiva
Contrariamente alla credenza popolare, l’infelicità non è un errore del sistema, ma una componente intrinseca e necessaria per un’esistenza appagante. Arthur Brooks, professore alla Harvard Kennedy School ed esperto di felicità, spiega come il nostro cervello elabori felicità e infelicità in emisferi distinti, suggerendo che entrambe le esperienze sono indispensabili.
L’errore più grande che si possa commettere è interpretare l’infelicità come un ostacolo da rimuovere, anziché come un prezioso indicatore. L’infelicità è una bussola interna, un segnale potente che ci avverte della presenza di questioni esistenziali importanti o disallineamenti significativi nella nostra vita che richiedono immediata attenzione. Quando si cerca di evitarla completamente, non solo si fallisce miseramente, data l’impossibilità di eliminare le emozioni negative, ma si rischia di innescare gravi problemi psicologici.
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I meccanismi che adottiamo per sedare i sentimenti sgraditi sono spesso controproducenti. L’uso sregolato di sostanze, l’abuso di alcol, o l’eccesso di tecnologia — in particolare lo scorrimento distratto dei feed social — non fanno altro che mascherare l’ansia senza offrire alcuna via d’uscita costruttiva. L’abuso della tecnologia come via di fuga diventa una repressione emotiva malsana che impedisce al cervello di concentrarsi sulla risoluzione dei problemi reali, tenendoci bloccati in un ciclo di procrastinazione emotiva. Evitare la negatività, paradossalmente, è dannoso perché ci priva degli strumenti per evolvere.
Workaholism e dipendenza dal successo: il meccanismo di fuga che isola
Tra le vie di fuga più insidiose e culturalmente accettate spicca il workaholism, ovvero l’eccessiva preoccupazione per il lavoro che trascende la sana ambizione. La frenesia lavorativa non è semplicemente sinonimo di operosità; si tratta, come sottolinea Brooks, di una vera e propria dipendenza dal successo. Per molti, il lavoro incessante diventa la strategia primaria per evitare di affrontare problemi personali, ansie o le inevitabili preoccupazioni della vita.
Chi cade in questa trappola spesso si autoimpone la figura di un capo severo e implacabile, trasformando il proprio tempo in un campo di battaglia dove l’unica vittoria possibile è l’annientamento del pensiero sgradevole attraverso l’iperattività. Questo comportamento distruttivo ha conseguenze devastanti, in primis sulle relazioni interpersonali. L’eccessiva preoccupazione per il lavoro distrugge i rapporti con i propri cari: la famiglia, il coniuge e i figli ne pagano il prezzo più alto, sentendosi trascurati e secondari rispetto alla carriera.
Il problema di fondo non è l’impegno, ma la dipendenza dal successo, che porta l’individuo a ridursi a null’altro che una “macchina del successo”. Oggettificando sé stessi e misurando il proprio valore unicamente in base ai risultati e alle lodi esterne, i workaholic si privano di una parte significativa della loro umanità. Il workaholism è l’antitesi dell’autentica felicità, perché scambia l’essere “speciali” con l’essere felici, un baratto che lascia un vuoto relazionale ed emotivo profondo.

Riconsiderare questo fenomeno da una prospettiva psicologica è cruciale: cosa si nasconde davvero dietro l’urgenza di lavorare in modo straordinario? Non è il desiderio di eccellere, ma spesso la paura di confrontarsi con il proprio mondo interiore.
La soluzione proposta dall’esperto di Harvard per una gestione corretta dell’umore non risiede nella soppressione, ma nell’impiego di tecniche collaudate che rafforzano la salute mentale e le relazioni armoniose. Invece di soccombere all’ansia, è meglio indirizzare l’energia verso:
- L’esercizio fisico: Attività come la corsa o altre forme di allenamento sono potenti strumenti per elaborare e dissipare lo stress a livello neurobiologico.
- Le pratiche spirituali o il ricorso alla fede: Queste offrono un senso di scopo più profondo e una connessione che va oltre il successo materiale.
In definitiva, Brooks suggerisce un sostituto radicale e fondamentale per l’ossessione da lavoro: sostituire il lavoro con l’amore per gli esseri umani. Coltivare amicizie autentiche (non solo relazioni d’affari o “deal friends”), che non hanno uno scopo utilitaristico ma sono basate sull’affetto e il supporto reciproco, è l’avventura più entusiasmante e gratificante che si possa intraprendere.
L’unica via per una vita realmente appagante passa attraverso l’accettazione che le emozioni, sia positive che negative, sono parte integrante del viaggio umano. Riconoscere l’infelicità come un messaggio e sostituire la compulsione lavorativa con il tempo dedicato alle relazioni e alla cura di sé non è solo un consiglio per il benessere, ma una strategia vitale per la salute mentale. L’invito è a superare la mentalità di “macchina del successo” e a investire nelle connessioni umane, la vera valuta della felicità.
Approfondimenti consigliati:
- Per approfondire il legame tra successo, workaholism e relazioni, si consiglia la lettura del lavoro di Arthur Brooks sul tema della dipendenza dal successo e della ricerca della felicità: Fighting Workaholism: You Are Not a Success Machine – YouTube.
- Articoli sulla psicologia del benessere e sulla gestione delle emozioni negative.
FAQ – Domande Frequenti
1. Perché Arthur Brooks sostiene che evitare l’infelicità sia dannoso? Brooks, professore di Harvard, spiega che felicità e infelicità sono elaborate da emisferi cerebrali separati e che l’infelicità agisce come un segnale che indica questioni esistenziali importanti da affrontare. Evitarla attraverso meccanismi di repressione (come l’abuso tecnologico o il workaholism) non fa che mascherare i problemi, impedendo di concentrarsi sulle soluzioni e prolungando il malessere di fondo.
2. Qual è la differenza tra lavorare sodo e la dipendenza dal lavoro (workaholism)? Lavorare sodo è un’azione motivata dall’obiettivo o dalla passione, ma il workaholism è un comportamento di dipendenza. Brooks identifica il workaholism come una dipendenza dal successo, dove l’eccessiva operosità è utilizzata come via di fuga dalle preoccupazioni e dall’ansia personale. Trasforma l’individuo in un “capo severo di sé stesso” e danneggia irreparabilmente i rapporti affettivi.
3. Quali alternative salutari consiglia Brooks per gestire l’ansia invece della repressione emotiva? Invece di reprimere i sentimenti negativi con vie di fuga malsane, Brooks raccomanda l’esercizio fisico regolare e le pratiche spirituali o il ricorso alla fede. Queste attività sono tra i modi più efficaci e scientificamente provati per rafforzare la salute mentale. L’obiettivo è elaborare l’ansia e lo stress in modo costruttivo, piuttosto che sopprimerli.
4. Cosa si intende con l’espressione “ridursi a una macchina del successo”? Questa frase descrive un processo psicologico in cui un individuo misura il proprio valore unicamente in base ai risultati e agli obiettivi raggiunti. Riguarda la oggettificazione del sé come un robot o una macchina, che esiste solo per produrre successi. Questo approccio distorce l’identità personale e compromette la capacità di sviluppare “vere amicizie” e legami emotivi profondi.
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