Baobab, i più antichi del mondo stanno misteriosamente morendo

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Il baobab, nome scientifico Adansonia, è un pianta che appartiene alla famiglia delle Bombacaceae ed ha origine in Africa, dove sono presenti 7 specie (sei in Madagascar) e in Australia con una specie.

In Africa, il frutto di baobab è usato da sempre per le sue virtù medicinali e benefiche.

Da secoli ormai, la gemma che nasce dal grande albero africano, viene usata per curare malattie come la malaria, la febbre alta, depura inoltre il fegato ed i reni, e blocca l’invecchiamento cutaneo, grazie alle vitamine che sono contenute in esso. Il Baobab, regolarizza inoltre il sistema cardiovascolare, procurando tonicità ed elasticità alle vene; è ottimo infatti per chi ha problemi di circolazione sanguigna e vene varicose.

Più in generale, la maggior parte dei benefici del baobab per la salute sono attribuiti perlopiù ai suoi altissimi livelli di vitamina C, che ne fanno un supercibo. Una porzione di 100 grammi di polpa di frutto di baobab contiene fino a 500 milligrammi di vitamina C, ossia 10 volte la quantità che si trova in una porzione equivalente di arance fresche.

La vitamina C presente nella polvere di baobab -o nel frutto fresco, se è possibile procurarselo – aiuta inoltre il corpo a migliorare le proprie capacità di bruciare i grassi durante un allenamento. Il baobab, secco o fresco, è inoltre un’ottima fonte di benefici minerali, come calcio, rame, ferro, magnesio, potassio e zinco.

Tra le proprietà del baobab c’è anche quella di migliorare l’umore, allontanando lo stress e facendo recuperare le forze anche ai fisici più debilitati. La polvere di baobab è infatti ricchissima di glucidi e vitamine, una vera e propria sferzata di energia.

Solitamente, questo gigante tra i più antichi del nostro pianeta si erge solitario, e può raggiunge facilmente i 20 metri d’altezza e i 12 metri di diametro. La sua vita è lunghissima: la maggior parte dei Baobab vivono 500 anni, ma in alcune parti dell’Africa sembra che ne esistano esemplari vecchi di 5.000 anni.

Eppure questi esemplari più anziani sono proprio quelli più a rischio: alcuni dei più grandi e antichi baobab stanno infatti morendo e le cause non sono chiare.

Se n’è accorto un gruppo di ricercatori che ha realizzato uno studio durato diversi anni per approfondire le conoscenze sui baobab più famosi dell’Africa, spesso venerati dalle popolazioni locali proprio per la loro grandezza e longevità, con pochi paragoni nel mondo vegetale.

Nello specifico, lo studio stato realizzato da Adrian Patrut dell’Università Babeș-Bolyai di Cluj-Napoca in Romania: insieme ai suoi colleghi, Patrut ha utilizzato un sistema di datazione al radiocarbonio per calcolare l’età dei baobab.

La scelta di usare il radiocarbonio è derivata dal fatto che i metodi utilizzati per stimare l’età dei baobab erano stati per lungo tempo approssimativi, e basati più che altro su valutazioni legate alle dimensioni raggiunte dagli alberi e alle testimonianze delle popolazioni locali.

Da ogni albero sono stati estratti campioni in diversi punti della pianta, in modo da confrontare l’età del legno prodotto più di recente con quello più antico. Sono stati quindi raccolti campioni dalla corteccia e dai grandi steli che nel corso degli anni si fondono insieme, creando cavità nell’albero.

Lo studio, pubblicato su Nature Plants e realizzato tra Zimbabwe, Sudafrica, Namibia, Mozambico, Botswana e Zambia, mostra così come 8 dei 13 baobab più vecchi del mondo e 5 dei 6 più grandi sono morti dal 2005 a questa parte, cioè da quando i ricercatori hanno cominciato a monitorarli. Tra le «vittime» ci sono anche nomi illustri: Panke, in Zimbabwe, di un’età stimata di 2450 anni; il baobab di Platland, in Sudafrica, il cui tronco supera i 10 metri di diametro; e Chapman, in Bostwana, sul quale l’esploratore scozzese ottocentesco David Livingstone incise le sue iniziali, diventato monumento nazionale.

Nello studio gli autori scrivono di avere escluso la presenza di particolari epidemie e ipotizzano, con molte cautele, che le morti dei baobab possano essere causate da cambiamenti del clima in parte dell’Africa.

Per confermare questa ipotesi, o individuare una causa alternativa per il fenomeno, occorreranno ovviamente ulteriori analisi.

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