La cravatta ostacola il flusso sanguigno, un altro motivo per odiarla

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Per chi non è amante della cravatte oggi ci sarà un’altra ragione per odiarle, ricercatori tedeschi infatti hanno scoperto che le cravatte possono restringere il flusso di sangue al cervello, secondo uno studio pubblicato online il 30 giugno su NeuroradiologiaI professionisti cosiddetti “colletti bianchi” hanno sempre avuto ottimi motivi per non gradire le cravatte, ma l’impatto clinico della “cravatteria” non era molto noto fino ad oggi. Tutto è cominciato a cambiare nei primi anni del 2000, quando i ricercatori hanno iniziato ad analizzare i possibili rischi per la salute, che vanno dalle cravatte come vettore per trasmettere infezioni acquisite in ospedale al possibile effetto dei legami sulla pressione intraoculare.

Un tocco di classe per completare un abito elegante, una tortura da sopportare durante una cerimonia o le interminabili ore in ufficio: nonostante le opinioni contrastanti, la cravatta è indubbiamente un accessorio che non manca nel guardaroba di nessun uomo.

Nonostante i croati insistono nel dire che sia stata una loro invenzione, al tempo della Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648), allorché inviarono dei mercenari in Francia che le portavano, il prototipo della cravatta attuale è di origine americana e risale al 1700. Inizialmente era sostanzialmente una bandana annodata a fiocco e, strano ma vero, fu un pugile a renderla popolare: James Belcher.

Un’altra delle antenate delle moderne cravatte apparve durante la battaglia di Steinkirk del 1692, in Olanda. Gli inglesi lanciarono un attacco di sorpresa e per correre al campo gli ufficiali francesi, invece di perder tempo ad annodare al collo le proprie bandane, ne infilarono l’estremità nell’occhiello del bavero: la loro immagine parve molto attraente e dinamica, e la moda durò per oltre un secolo.

La cravatta moderna, simile a quella che indossiamo oggi, nasce in Inghilterra verso il 1850, a Macclefied, nel Surrey, ma erano più corte e larghe di quelle attuali. Macclefield fu un grande centro industriale specializzato nella stampa della seta, la Como inglese del XIX secolo.

In generale, le cravatte hanno un significato psicologico che suggerisce costanza e  attendibilità. Togliersi la cravatta, invece, indica tutt’altro, cioè che ci si rilassa e le cose si affrontano diversamente.

Eppure, nonostante sia a tutti gli effetti un classico intramontabile, secondo un nuovo studio condotto in Germana l’immancabile ‘nodo al collo’ che tormenta impiegati e manager potrebbe comprimere vasi sanguigni che sono fondamentali per l’afflusso di sangue al cervello, con effetti negativi che potrebbero influire sul funzionamento cognitivo e quindi – a rigor di logica – sulle prestazioni lavorative.

Più nello specifico, lo studio è stato pubblicato su ‘Neuroradiology’ e per condurre la ricerca, firmata da Robin Lüddecke dell’University Hospital Schleswig-Holstein, sono stati arruolati 30 giovani volontari e sono stati divisi in due gruppi.

Quindici volontari dovevano indossare la cravatta durante la risonanza magnetica – annodandola con un nodo ‘full Windsor’, che prevede una svolta in più rispetto a quello semplice – l’altra metà invece no.

I risultati, tracciati dal dottor Lüddecke , hanno portato l’esperto a parlare di vero e proprio danno per chi indossava l’accessorio: infatti, coloro che portavano la cravatta subivano una riduzione di flusso sanguigno verso il cervello del 7,5% rispetto a chi non la portava e per logica compromettendo in maniera lieve le funzioni cerebrali.

Una cosa da non sottovalutare assolutamente, dato che gli esperti spiegano che un flusso regolare e costante di sangue al cervello è fondamentale per far sì che i neuroni possano continuare a trasmettere i loro messaggi, rendendo possibile la risposta istantanea a un problema.

Un ottimo motivo, quindi, da addurre per coloro che sono sempre stati insofferenti alla cravatta e che cercano una scappatoia per toglierla per sempre: dopotutto, se è vero che in ufficio si deve apparire sempre ben in ordine quando non eleganti, a che serve essere impeccabili quando poi sono le prestazioni cognitive a risentirne?

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