Negli ultimi anni l’Istat ci ha disegnato un quadro del nostro paese non certo lusinghiero: un’economia che non riesce a crescere quanto dovrebbe e una disoccupazione alle stelle hanno avuto come conseguenza una crescita esponenziale dei “poveri”.
Più precisamente si fa una differenza sostanziale tra povertà assoluta e povertà relativa: senza voler entrare in discorsi macroeconomici, cosa si intende con questa differenziazione?
Secondo la definizione più condivisa, la povertà assoluta è quella legata alle necessità fisiologiche di base: il povero non riesce neppure a soddisfare, da solo, i propri bisogni primari, il fabbisogno nutrizionale minimo, la disponibilità di beni e servizi essenziali per la sopravvivenza.
La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nella fruizione di beni e servizi, riferita a persone o ad aree geografiche, in rapporto al livello economico medio di vita.
In soldoni, quindi, il povero assoluto è colui che non riesce neppure ad assicurarsi un tetto o pasti caldi, mentre la povertà relativa identifica le famiglie che stentano ad arrivare a fine mese, quelle che devono fare numerose rinunce, sia in ambito sociale che sanitario.
Si potrebbe pensare che il concetto di povertà assoluta sia legata in primis a paesi in via di sviluppo, come quelli del terzo mondo, ma non è affatto così: negli ultimi anni in Italia i poveri assoluti hanno sfondato quota 5 milioni e sono in costante crescita.
Secondo gli ultimi dati Istat, per un adulto (di 18-59 anni) che vive solo, la soglia di povertà è pari a 826,73 euro mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, a 742,18 euro se vive in un piccolo comune settentrionale, a 560,82 euro se risiede in un piccolo comune del Mezzogiorno. La soglia della povertà relativa è invece – per una famiglia di due componenti – pari alla spesa media per persona nel Paese: nel 2017 è stata di 1.085,22 euro mensili.