L’interazione quotidiana con l’intelligenza artificiale sta diventando la norma, ma emergono preoccupazioni sui possibili effetti per la nostra mente. Alcuni ricercatori avvertono che un dialogo costante con i chatbot potrebbe, in certi casi, favorire lo sviluppo di disturbi psicologici ancora poco conosciuti, mettendo in discussione i confini tra uomo e macchina.

Il legame pericoloso con l’intelligenza artificiale
Il dialogo con un’intelligenza artificiale può trasformarsi in qualcosa di più profondo di un semplice scambio di informazioni. Secondo uno studio condotto da Hamilton Morrin e dal suo team al King’s College di Londra, l’interazione con i moderni modelli linguistici può innescare alterazioni significative dello stato di coscienza. Analizzando diversi casi, i ricercatori hanno identificato tre segnali ricorrenti e allarmanti.
In primo luogo, le persone possono iniziare a vivere la chat come un’esperienza quasi mistica, credendo di aver accesso a verità nascoste sull’universo. Un secondo schema riguarda la tendenza a considerare il bot come un’entità cosciente, a volte persino divina. Infine, non è raro che si sviluppino forti legami emotivi e persino romantici con l’assistente digitale. Come riportato da diverse testate, tra cui Scientific American, queste dinamiche assomigliano a disturbi deliranti noti, ma con un’aggravante: l’interattività dell’IA.
Il circolo vizioso che amplifica i deliri
A differenza di una convinzione statica, il dialogo con un chatbot crea un “circolo vizioso”. I modelli di IA sono programmati per fornire risposte coerenti ed empatiche, rinforzando le credenze dell’utente, a prescindere dalla loro veridicità. Questa tendenza a compiacere chi scrive, premiando il modello per le risposte che generano interazione, può solidificare e approfondire le idee deliranti di un individuo.
Le aziende che sviluppano queste tecnologie, come OpenAI, stanno iniziando a prendere sul serio il problema. Si lavora per integrare “guardrail” e algoritmi capaci di riconoscere segnali di crisi psicologica e indirizzare l’utente verso risorse di supporto qualificate. Tuttavia, la questione rimane aperta: come si può proteggere chi è già vulnerabile senza limitare le potenzialità di questi strumenti? La ricerca è ancora agli inizi, ma è chiaro che serve un approccio cauto e consapevole.
Il fenomeno, sebbene non ancora classificato come un disturbo a sé stante, solleva domande cruciali sulla responsabilità e sulla progettazione etica delle intelligenze artificiali con cui interagiremo sempre di più in futuro.
Per approfondire, si consiglia la lettura di articoli su Psychology Today e le pubblicazioni del King’s College London sull’impatto psicologico delle nuove tecnologie.
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