Paolo Ruffini si difende: anche le parolacce raccontano la violenza

VEB

Nelle scorse ore vi avevamo raccontato della performance, ben poco edificante a detta di molti, di Paolo Ruffini, chiamato a presentare un evento molto importante per denunciare il fenomeno del cyber bullismo, dove lui però aveva dato sfoggio di rozzezza, usando un linguaggio scurrile, condito da un gran numero di parolacce.

In poche ore è diventato un caso il linguaggio “disinvolto” dell’attore toscano chiamato a presentare “Condivido”, l’incontro sull’hate speech e sul bullismo a scuola che ha lanciato il manifesto per la “Comunicazione non ostile”.

I più contrariati sono stati i prof di una scuola di Trieste, che hanno deciso – con l’appoggio dell’assessore all’istruzione del Friuli Venezia Giulia, Loredana Panariti – di sospendere la diretta a causa delle parolacce.

Lo stesso ministro all’istruzione del governo, Valeria Fedeli, ha poi ripreso Paolo Ruffini, ricordandogli a fine intervento che “Io mi tappavo le orecchie quando diceva le parolacce, ma è stato bravissimo”.

L’attore però non ci sta ad essere attaccato, senza difendersi, e così ha scelto di replicare in una lettera aperta indirizzata al direttore de Il Foglio, che l’ha pubblicata: “Parolaccia è il dispregiativo del termine parola. Tuttavia la parola è una scatola al cui interno c’è il significato. La confezione è importante ma conta di più di quello che si trova scartandola? Una parola non “accia” che sia volgare nella sostanza del significato è preferibile a una parolaccia goliardica e del tutto inoffensiva? E soprattutto la parolaccia è condizione necessaria e sufficiente alla volgarità? Quanto è volgare la censura? Quanto è volgare la distanza siderale che hanno gli adulti con i ragazzi a cui fingono di rivolgersi senza nemmeno scomodarsi ad usare lo stesso codice?”, ha esordito.

Poi: “Non mi interessa rispondere alle polemiche. Oggi, come ieri, trovo infinitamente più interessante parlare con quei ragazzi, ma soprattutto ascoltarli. Le battute, il linguaggio e l’ironia sono serviti a dire loro: “fidatevi di me”. Mi hanno concesso la loro fiducia, una cosa preziosa, che per me vale molto di più di tutto il resto. Traghettati da quell’empatia abbiamo potuto confrontarci liberamente e autenticamente su temi importanti, come l’omofobia, il razzismo, la diversità, l’aggressività, e lo abbiamo fatto senza filtri e senza avere paura. Aver scelto questa chiave è stato incosciente da parte mia ma, a mio avviso, indispensabile: quello che abbiamo condiviso con i ragazzi di tutta Italia mi conferma che ne sia valsa la pena. Non usare un linguaggio comune, mettere una distanza tra me e loro, sarebbe stato volgare. Odio, intolleranza, omofobia, queste per me sono parolacce. Perché è giusto raccontare ai ragazzi che la violenza è merda. Se poi qualcuno vuole dire che la violenza è cacca… Ci sono parole poco allineate discutibilmente ironiche (ma chi decide cosa fa ridere e cosa no? Che male c’è a ridere con una parolaccia? Da Aristofane ai cinepanettoni la nostra cultura l’ha sempre fatto), poi ci sono le parole poco allineate, quelle tese a offendere, insultare e discriminare, che sono indiscutibilmente violente. Costruire una dialettica migliore non sta nel buttare fuori dalla classe i ragazzi che usano le parolacce, perché è nei corridoi che matura l’odio. I ragazzi non hanno bisogno di esclusione ma di inclusione. La maniera migliore per contrastare l’hating rimane sempre una carezza e un sorriso.
Le mie parolacce erano questo: carezze e sorrisi”.

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