Facebook si difende travolta da un nuovo scandalo sulla privacy

VEB

Facebook ce la sta mettendo tutta cercando di non sprofondare, ma i problemi sono all’ordine del giorno: non basta la concorrenza che si fa sempre più serrata e i giovani che ormai da anni si stano disaffezionando preferendo altre piattaforme, ci si mettono anche gli scandali che si susseguono senza sosta.

A metà marzo 2018 è scoppiato il cosiddetto scandalo Cambridge Analytica, una delle più vaste violazioni di dati della storia. L’azienda, legata all’ex consigliere del presidente USA Trump, Steve Bannon, è accusata di aver violato i dati sensibili di oltre 87 milioni di profili Facebook.

L’inchiesta di Guardian, Observer e New York Times che ha portato alla luce la vicenda si basava sulle rivelazioni di un informatore che ha raccontato come dal 2014 la società abbia iniziato a raccogliere senza autorizzazione i dati personali degli utenti di Facebook.

I dati sono stati carpiti approfittando della possibilità che Facebook concedeva a solo scopo di ricerca (e che dal 2015 non è più in vigore) di ottenere le informazioni su tutti i contatti degli utenti. Il grimaldello è stata un’app sviluppata e poi diffusa anche tramite compenso economico da un ricercatore universitario che poi ha passato, contravvenendo agli accordi pattuiti con Facebook che escludono la vendita di dati personali a terzi senza consenso degli interessati, l’enorme archivio a Cambridge Analytica.

Guardian a New York Times accusano quindi il fondatore di Facebook di essere venuto a conoscenza dell’accaduto due anni prima, e non aver fatto nulla per avvisare i profili saccheggiati.

E, sulla scia di questo scandalo, in queste ore ne è scoppiato un altro: Facebook infatti avrebbe stretto accordi con almeno 60 produttori di smartphone negli ultimi 10 anni, tra cui i big player Apple, Amazon, BlackBerry, Microsoft e Samsung, permettendogli di accedere a una enorme quantità di informazioni personali.

Secondo il New York Times, che ha lanciato la notizia, le partnership non sono mai state segnalate, dunque non può essere chiarita la portata dei dati trasmessi e utilizzati, né il modo in cui sono stati impiegati.

Alcuni produttori di dispositivi mobili sono stati in grado di accedere a informazioni relative a contatti di persone che ritenevano di aver vietato qualunque intromissione attraverso gli strumenti a tutela della privacy.

Ma se per lo scandalo precedente Facebook, attraverso il suo fondatore, ha fatto mea culpa anche dinanzi al Congresso e si è assunto tutte le sue responsabilità, stavolta non ci sta, difendendosi attraverso il suo blog.

Per il team del social, le device-integrated API a cui fa riferimento il New York Times sono state lanciate 10 anni fa per portare Facebook nei dispositivi mobili: parliamo di un periodo in cui l’azienda era ancora molto giovane e non aveva risorse per sviluppare il proprio software per tutti i dispositivi disponibili.

Inoltre, in alcuni casi non esistevano neanche gli app store ed era prassi comune che i produttori di smartphone integrassero tutto ciò di cui l’utente poteva aver bisogno, come ad esempio Facebook.

Quel che Facebook ci tiene a sottolineare, inoltre, è che questi dati personali non sono stati forniti a società terze e non sono stati utilizzati per altro scopo oltre che per replicare l’esperienza di Facebook su dispositivi mobili.

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